La disponibilità di connessioni e capacità tecnologiche in dispositivi sempre più portatili ha rivoluzionato le nostre vite, lasciando spazio a comportamenti che in passato non avrebbero mai trovato luogo, come la pubblicazione istantanea di un selfie su un social network, il controllo delle email e la possibilità di comunicare in maniera immediata e intuitiva con chiunque non solo vocalmente, ma anche telematicamente mediante le apps di messaggistica istantanea come WhatsApp.
Tali cambiamenti non hanno rivoluzionato solo il nostro tempo libero, ma anche le attività economiche e lavorative, grazie ad una riduzione drastica dei tempi di comunicazione e passaggio delle informazioni. Anche la stessa modalità con cui il lavoratore fornisce la sua prestazione è sempre più influenzata da tali abitudini. Infatti, una delle pratiche più in voga in molte aziende (soprattutto di grandi dimensioni) è quella del c.d. “smart working”. Grazie ad esso il lavoratore potrà fornire la propria attività lavorativa anche in luoghi diversi dal classico ufficio, poiché gli strumenti necessari per la prestazione lavorativa tendono sempre più a coincidere con quelli ormai da tutti considerati indispensabili per la vita quotidiana, come uno smartphone e un laptop. Basterà infatti la loro presenza a rendere possibile per il lavoratore svolgere quelle attività quotidiane (come controllare le email, lavorare su un file Excel, approvare uno specifico atto) in qualsiasi luogo in cui si trovi, anche la sua stessa casa.
Tale pratica viene da molti considerata innovativa poichè ritenuta in grado di mutare la tradizionale concezione della prestazione lavorativa, rendendola anche più conforme ai ritmi e ai bisogni di vita individuale di ognuno. Infatti, grazie all’idea del lavoro “smart”, sarà possibile rispondere ad una email di lavoro mentre si è al parco con i propri figli, non privandosi così di tali piacevoli attività.
Tuttavia, quando si parla di “smart working”, è bene mettere in risalto alcuni caratteri fondamentali e alcune criticità latenti in tale attività. Innanzitutto, non si deve confondere lo “smart working” con il “telelavoro”.
Entrambi non sono altro che modalità alternative di svolgimento dell’attività lavorativa subordinata, rendendo così possibile la loro applicazione per lavoratori dipendenti a tempo indeterminato o determinato ma non per gli imprenditori e i lavoratori autonomi.
Il telelavoro, regolamentato in via esclusivamente pattizia (mediante accordo quindi) dalle associazioni sindacali e di categoria sia a livello nazionale che comunitario, consiste nello svolgimento di attività lavorative in un luogo fisico ben determinato, mediante l’utilizzo di strumenti messi a disposizione dallo stesso datore di lavoro e con la possibilità, in capo alle organizzazioni sindacali e allo stesso datore, di verificare lo svolgimento della prestazioni accedendo al luogo designato.
Lo “smart working”, invece, non ha nulla di tutto ciò. Esso si caratterizza per l’assenza di vincoli inerenti la designazione necessaria del luogo in cui la prestazione verrà svolta, così come si baserà sull’utilizzo di strumenti personali del lavoratore per l’adempimento dei propri doveri, senza alcun obbligo di fornitura da parte del datore di lavoro.
L’adozione del modello di “smart working” non cambia solo le mere modalità di svolgimento della prestazione, ma anche gli obiettivi richiesti all’attività lavorativa e il metro di valutazione della stessa. Si passa, infatti, da una visione incentrata sulla durata della prestazione ad una in cui la qualità del lavoro svolto viene misurata in obiettivi raggiunti, non potendosi attuare un controllo diretto sulla persona del lavoratore durante lo svolgimento della sua attività. Tuttavia, a causa di tali nuovi orizzonti, si rischia di perdere di vista il vero obiettivo dell’implementazione dello smart working dal punto di vista legislativo, cioè la capacità di coniugare esigenze di vita con esigenze lavorative.
Per tale motivo è stato presentato, nel gennaio del 2016, un disegno di legge del Governo in cui ci si proponeva di dettare gli equilibri fra le opposte tendenze, tenendo sempre a mente che la figura del lavoratore subordinato risulta pur sempre svantaggiata a livello contrattuale rispetto a quella del datore. Tuttavia, nonostante le premesse, tale intento non sembrerebbe essere stato rispettato, soprattutto poiché emergono da tale disegno di legge delle incongruenze e delle diminuzioni della tutela effettiva a favore del lavoratore molto gravi.
Fra le tante, è necessario porre un’attenzione particolarmente critica sul rispetto o meno del principio di responsabilità per l’incolumità del lavoratore da parte del datore di lavoro.
Mentre nel tradizionale rapporto subordinato il datore di lavoro è responsabile per gli infortuni occorsi sul luogo di lavoro al proprio dipendente (con l’obbligo contestuale di predisporre tutte le misure di sicurezza idonee a prevenire che ciò accada), nell’ambito dello smart working tale principio di responsabilità tende a decadere. Infatti, essendo impossibile ricondurre lo svolgimento della prestazione lavorativa a luoghi sotto la diretta responsabilità del datore di lavoro, verrà imputata al lavoratore la responsabilità completa per la manutenzione e la salvaguardia della strumentazione necessaria alla propria attività (essendo di sua proprietà), con la contestuale assunzione di piena responsabilità per gli eventuali infortuni occorsi durante lo svolgimento della prestazione stessa.
Tutto ciò getta un’ombra anche sulla possibilità che lo stesso ente pubblico assicurativo (l’INAIL) accetti di coprire mediante proprie polizze i casi di infortunio occorsi al lavoratore in sedi esterne a quelle aziendali durante lo svolgimento della prestazione stessa, rischiando così di vanificare totalmente ogni forma di tutela per il lavoratore stesso.
Altro punto dolente è senza dubbio quello riguardante la mancata identificazione di limiti per i carichi di lavoro. Infatti, a differenza di quanto previsto negli accordi per il telelavoro, nel disegno di legge sullo smart working manca totalmente qualsiasi riferimento a dei limiti (o perlomeno dei principi giuda) mediante i quali sarà possibile quantificare il carico di lavoro per il dipendente sottoposto a smart working. Lasciando tale sensibile materia alla contrattazione collettiva senza che essa sia sorretta da alcuno schema legislativo di riferimento, si rischia di indebolire eccessivamente la posizione dei lavoratori in sede contrattuale, non essendovi alcun limite alle richieste del datore, che si potrebbe così sentire legittimato ad avanzare richieste non in linea con il trattamento garantito dalla legge per ogni lavoratore subordinato.
Anche le tematiche del potere di controllo del datore di lavoro e la determinazione degli orari gettano delle ombre inquietanti sul disegno di legge in esame nelle Aule parlamentari. Infatti, grazie alla nuova forma dell’art. 4 dello Statuto dei lavoratori introdotta dal Jobs Act, il datore di lavoro sarà in grado di vincolare l’uso dei mezzi telematici volti allo svolgimento della prestazione al solo ambito lavorativo, impedendone in maniera tassativa l’uso a scopo personale e controllandone accessi e utilizzo anche da remoto. Sarà inoltre possibile raccogliere i dati legati alle presenze e allo svolgimento dell’attività lavorativa anche senza l’accordo preventivo con le associazioni sindacali di riferimento, bastando la sola autorizzazione della Direzione provinciale del Lavoro. Mentre per quanto riguarda la determinazione dell’orario di lavoro, è evidente che spostando la prospettiva dalla durata al raggiungimento di obiettivi della prestazione, sussiste il rischio di una disintegrazione totale del lavoro subordinato. Infatti, essendo impossibile stabilire una durata precisa della prestazione richiesta, si potrà facilmente incorrere nel rischio dell’obbligo di connessione perpetua (c.d. always on) grazie a cui al lavoratore non sarebbe mai riconosciuto un effettivo momento di riposo a causa della sussistenza di specifici obiettivi da raggiungere.
Tale situazione potrebbe, inevitabilmente, inficiare la natura stessa del lavoro subordinato, che, da tempo e universalmente, viene riconosciuto e inquadrato come obbligazione di mezzi e non di risultato.
Tutto ciò fa quindi emergere un quadro molto più nebuloso e pericoloso di quanto si possa credere sullo smart working, su cui è necessario tenere alta l’attenzione per evitare un’ulteriore svendita e depauperamento delle prerogative dei lavoratori.
Dott. Mattia Palatta