Con la sentenza n. 46415 del 2015, la IV Sezione Penale della Corte di Cassazione si è espressa su un tema importante come quello relativo alla normativa antiriciclaggio, con specifico riferimento alle disposizioni in materia di adeguata verifica del cliente.
Con la pronuncia in esame, è stata confermata la condanna dei destinatari della normativa antiriciclaggio che, al momento dell’adeguata verifica, non hanno adempiuto correttamente all’obbligo di identificazione del cliente.
Nel caso di specie, il processo si riferiva ad una consulente fiscale e del lavoro che, attraverso vari raggiri, si faceva consegnare dai propri clienti somme di danaro per gli adempimenti fiscali e previdenziali, rilasciando loro false quietanze di pagamento.
Congiuntamente alla consulente fiscale, il giudice condannava due impiegate di un Ufficio Postale che, occupandosi dell’istruttoria di pratiche per la richiesta di alcuni finanziamenti, avevano omesso di effettuare le verifiche necessarie per identificare il reale cliente. Le impiegate avevano accettato le proposte presentate dalla consulente, in virtù di un rapporto di fiducia tra le lavoratrici e la professionista.
La Cassazione, dunque, ribalta la sentenza della Corte d’Appello, che aveva accolto la richiesta delle due impiegate coinvolte con l’assoluzione per mancanza di dolo. Una decisione rafforzata dal fatto che una delle due lavoratrici, venuta a conoscenza dei raggiri effettuati dalla consulente, aveva sporto denuncia personalmente.
La Cassazione, invece, con la sua pronuncia ha affermato un importante principio, ritenendo la comprensione del dolo generico coma causa sufficiente ai fini della determinazione del delitto. In altre parole, l’esistenza del dolo generico verrebbe dimostrata ogni qual volta il professionista abbia coscienza di violare la normativa antiriciclaggio alla quale è sottoposto, non essendo a tal proposito rilevante l’effettiva esistenza di operazioni di riciclaggio.
Le lavoratrici sono state accusate di violazione degli obblighi di cui agli artt. 15, 18 e 55 del Dlgs. 231/2007. L’art. 15 del Decreto Antiriciclaggio regolamenta le tempistiche per l’assolvimento dell’obbligo di adeguata verifica nei confronti della propria clientela; l’art. 18, invece, disciplina il contenuto specifico di tali obblighi, precisando che l’adeguata verifica si sostanzia “nell’identificare il cliente, e verificarne l’identità sulla base di documenti, dati o informazioni ottenuti da una fonte affidabile e indipendente”.
L’art. 55 stabilisce inoltre che la violazione di tali disposizioni costituisce un illecito penale che, nello specifico, viene sanzionato con una multa di un massimo di 13.000 euro.
Dunque emerge che, pur non avendo tenuto una condotta idonea ad integrare il reato, è sufficiente ai fini della sussistenza della responsabilità in capo al soggetto la sussistenza dell’intenzione volontaria di non adempiere agli obblighi di adeguata verifica, in grado per l’appunto di integrare il dolo generico. Inoltre, è risultato insufficiente dimostrare che l’omissione della verifica sia avvenuta in buona fede e sulla base del fatto che la consulente godesse di buona fama relativamente alla propria professione.
Dalla sentenza in esame sorge quindi spontaneo un quesito:
Come si sarebbe potuto evitare?